3 Settembre 2012. New York. Us Open. All’Arthur Ashe Stadium il tennista Roger Federer, numero 1 della classifica mondiale, si trova già nei corridori a firmare autografi ai fan in attesa dell’avversario, l’americano Mardy Fish. Ma qualche minuto prima dell’incontro, la notizia: i quarti di finale del grande slam non si disputeranno. Mardy Fish ha appena dato forfait. Questa le sue dichiarazioni: “Ero arrivato al limite. Boom! L’intero peso dello stress mi aveva inondato interiormente”.

Ma come? Il forte tennista americano, in quel tempo numero 8 del ranking mondiale, si sgretolava psicologicamente e lo faceva in maniera pubblica? Può il peso delle aspettative arrivare a creare così tanto malessere? E poi ancora: come è possibile prevenire o risollevarsi da un tale disagio interiore?

Per raccontarti questa storia, voglio partire dall’inizio. Gli anni Ottanta e Novanta hanno rappresentato per il tennis americano un periodo d’oro: John McEnroe, Pete Sampras, Andre Agassi. Atleti eccelsi che soni diventate eroi nazionali. Ma un problema preoccupava la United States Tennis Association, tanto da far sorgere spontaneamente una domanda: cosa verrà dopo tali leggende? Così, nel 1988, spinta da questo quesito, la stessa associazione decise di creare un programma di reclutamento per ragazzi al fine di costruire i campioni di domani: solo i migliori avrebbero avuto accesso alla famosa Saddlebrook Academy.

Tra questi, nel 1993, due giovani giocatori di 12 anni iniziarono il loro percorso in accademia. I due portavano il nome di Mardy Fish e Andy Roddick, amici fraterni fuori e grandi rivali sul campo da tennis. Le loro giornate si dividevano tra allenamenti tecnici, esercizi fisici e preparazione psicologica. A tal proposito, il programma che seguivano insegnava loro ad essere solidi mentalmente e a lavorare a testa bassa. Il loro mantra più comune recitava così: “niente piagnistei, proteste, o scappatoie”.

E così, nel 2000, Fish esordì tra i professionisti e 3 anni più tardi divenne uno dei 20 giocatori più forti al mondo. Ma… c’è un ma: nei confronti con Roddick quasi mai riusciva ad avere la meglio. Anzi, tranne che in rare occasioni, usciva sempre sconfitto dal campo fino al punto da vivere nell’ombra dell’amico rivale. Fish accusò mentalmente questa situazione. Infatti, da lì a poco, una serie di infortuni ripetuti e di risultati negativi lo rispedirono all’inferno: nel 2005 la classifica diceva 225° al mondo. 

Per un atleta è facile quando le cose migliorano. Difficile è rimanere al top quando si raggiunge la vetta. Massacrante quando si retrocede e si torna indietro. Le speranze del pubblico, dei commentatori e dei suoi fan si erano oramai azzerate: nessuno credeva più in lui. Per descrivere quel periodo Fish dichiarò: “Prima il campo era il mio paradiso, ma poi ho iniziato ad avere tanti pensieri, e il cuore mi iniziava a battere più veloce. Ho iniziato a cercare su Google: disturbi d’ansia, attacchi di panico, malattia mentale”. Lo stress si stava divorando l’uomo e l’atleta.

Ma Fish non ci stava, e così, insieme al suo team, decise di capovolgere quel destino che si stava palesando. Allenamenti intensificati alla ricerca di quello stato di forma eccellente che mai aveva avuto e ritorno graduale in campo allo scopo di riconquistare i vertici della classifica. E ci riuscì: 47° nel 2006, 37° nel 2007, 24° nel 2008, 8° nel biennio 2010-11, battendo anche Nadal all’ATP Master di Cincinnati.

L’ansia e il panico, però, non erano scomparsi della sua vita, ma soltanto temporaneamente soffocati da un’ambizione che non aveva fondamenta stabili su cui poggiare. Di fatti, il 3 Settembre 2012, proprio in occasione di quei quarti di finale degli Us Open, il crack mentale. A posteriori dichiarò: “Poi sono crollato. Il tennis mi era stato portato via completamente”. Fish cadde in un forte stato depressivo, e come spesso accade in questi casi, si rinchiuse in casa per settimane.

Per uscire da questo buco nero, decise qualche tempo più tardi di vedere uno specialista che gli diagnosticò un grave disturbo d’ansia. Iniziò così una lungo percorso di psicoterapia, coadiuvato da farmaci e meditazione, che lo aiutò a fronteggiare i suoi problemi e, ancora più importante, a parlarne in pubblico, cosa che lo renderà poi un’icona dello sport mondiale. 

Fish è stato infatti uno dei primi atleti a denunciare i danni che la pressione e lo stress possono causare in uno sportivo: “Mostrare debolezza e paura – dichiarò – è una parte enorme dell’essere atleta”. Anche perché l’ansia non si sconfigge definitivamente. “È una lotta giornaliera, che però vinco ogni giorno”.

Sono tanti gli atleti che dopo di lui hanno dichiarato apertamente di essere crollati sotto la pressione delle aspettative. La fortissima tennista giapponese Naomi Osaka, che dal 2018 vive stati di depressioni. O la ginnasta statunitense Simone Biles, anche lei ritirata dalle gare a causa di quella insostenibile tensione psicologica.

Siamo soliti considerare gli atleti élite degli eroi capaci di superare ogni limite. Ma la verità è un’altra: i “momenti no” possono esistere per tutti e vanno accolti. Quando si è in difficoltà è necessario alzare la mano e farsi aiutare. Come dichiara il tennista americano nel docufilm, condividere il suo malessere con un professionista e con le persone che gli sono state vicine è stato uno degli elementi in grado di fare la differenza nella sua ripresa. Perché uscire dal tunnel è possibile e Fish ne è una dimostrazione vivente.

Mardy Fish è diventato qualche anno più tardi allenatore del team USA della Coppa Davis, ma soprattutto un esempio per tutte quelle persone che possono affrontare con coraggio e fiducia la depressione. A tutti noi è stato concesso il diritto di essere umani: sfruttiamolo!


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